Not everything beautiful is good

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Siamo a settembre e “Not everything beautiful is good” di Findlay Brown rimane ancora il mio dischetto dell’anno, tra folk-pop, affreschi acustici e raffinato fingerpicking il cantautore inglese al quarto album si conferma autore di talento. Mio unico consolatore per ora, con il dono di rimandarmi alle mie stesse suggestioni.

Carillon 2015 – L’insostenibile leggerezza dell’ascolto

Questa non è solo una lista dei migliori album che ho ascoltato nel mio anno appena trascorso, ma un’altra esperienza data da una serie di impressioni che preservo dalle altre storie che lo hanno attraversato. Non di meno anche gli ascolti raccontano chi siamo, e ci sollecitano a raggiungere una consapevolezza di noi stessi che non si ferma a ciò che semplicemente ci piace e ci rasserena. È un altro percorso – un’altra metafora del viaggio – per scovare ciò che altrimenti si nasconde.
Sono tanti i momenti in cui la grazia della bellezza ci tocca quando siamo alle prese dell’incontro con l’ascolto che cercavamo – in qualche modo lo abbiamo già ricevuto, dettando i canoni della nostra ricerca. Questi sono i miei dieci migliori album ascoltati nell’anno di grazia 2015, arricchito da uscite interessanti, e sono scelte dettate ovviamente dal mio gusto personale e l’ordine è puramente emotivo.
È una classifica che sta tutta nella leggerezza, non posso farci niente ho un debole per le visioni leggere, ed è la stessa leggerezza che mi tocca ribadire per giungere alla liberazione dell’arte. Anche negli ascolti, certo. Ogni segnale che lanci, ogni segnale che ricevi. Tutto sta nella leggerezza.

a2231815864_10[1]1. Sufjan Stevens – Carrie and Lowell
Questo disco si è rivelato una magnifica sorpresa; un racconto del senso della perdita capace di stregarti come un ritratto ben disegnato e apparentemente innocuo nel suo essere già tracciato, inerme alla parete, eppure così devastante per capacità emotiva.
L’atmosfera è quella acustica delle origini, di quell’altro miracolo di Seven Swans, insomma un altro disco intimista, un altro discorso intimista, fatto di parole della propria vita, che è l’opera d’arte più bella. Lo testimonia la voce fragile di sempre, gli arpeggi dai quali traspare la nudità emotiva di Sufjan, i suoi sospiri a legare una dedica importante, quella a Carrie e Lowell, madre e padre.
Sono canzoni che prima di sparire indifese tra i rumori degli addii – così come ne danno rappresentazione fuori da queste atmosfere i giullari dei sentimenti – intessono il racconto di un distacco che Sufjan porta inevitabilmente a rarefarsi e a riconciliarsi nella sua offerta più intima e personale.

paul_tiernan_1447843245[1]2. Paul Tiernan – The Mystery of Others
La leggerezza come attitudine. La levità, la chiarezza sospese a mezz’aria tra intuizione e ironia. Un avvenimento estetico insomma. Un gioiello.
Che meraviglia pensare a una scrittura così elegante, in un easy listening dai colori tenui, con qualche alone grigio perla, l’approccio di chi non si sente in colpa se è triste a volte. È lo stile di Paul, come nel bellissimo album del 2004, Belle, e come allora anche qui racconta con piglio da crooner sereno le sue storie fatte pure di felicità – e lo immagino annuire, piano però – paesi e donne che ha incontrato, tra baci e altre cose incredibilmente più assurde. E lo fa con raffinatezza, diventando simbolo di raffinatezza dell’anno appena trascorso, ed è in questo contesto che le sue note e le sue parole trovano il loro momento migliore, anche quando Paul sembra solo passeggiare con una chitarra quasi blues cantando di cose più frivole, è sempre piacevole.

José González - Vestiges & Claws3. José Gonzalez – Vestiges and Claws
Il cantautore svedese di origini argentine – nasce così un ossimoro – José Gonzàlez, sempre in stato di grazia con questo nuovo attestato di nu-folk limpido e sgombro, in tutta la sua portata minimale e tradizionale, da ogni nuvolone di cantore odierno. Spogliate della inconfessabile ricercatezza che sta dietro comunque a queste intenzioni di pacatezza, le canzoni di Vestiges and claws trasudano anche di un certo pathos ritmato, esprimendosi sempre dentro spazi in penombra, attraverso la spiritualità di armonie evocative.
Anche José mostra all’esterno ciò che ha dentro, un’interiorità intesa però come desiderio appena goliardico di disegnare il mondo come un grande giro di giostra, folk.

rosymaze-markerstarling_14333270004. Marker Starling – Rosy Maze
Il canadese Marker Starling (vero nome Chris A. Cummings) ci regala un dischetto di easy-listening e di west-coast di classe, forse meno intimista di Paul Tiernan ma con in comune il fascino discreto per la scrittura pop con suggestioni folk, jazz, soul. Parliamo di episodi di pop-jazz, però poi queste definizioni sanno di strettoie di porte, utili solo alla recensioni. Poi vabbò ci sono i Beatles, che ci stanno sempre nell’olimpo di alcune collezioni, e si paga lo scotto del cuore spezzato di gioventù.
Anche qui raffinatezza dunque, tra atmosfere naif e melodie, e poi c’è Painful spring che sintetizza il mood dell’album, quando nella luce della sera o alla luce di candele riflette sulle pareti tante di quelle suggestioni che nessuna uscita affrettata può trattenere.

imagesI2827IN25. Matthew E. White – Fresh Blood
Anche qui parliamo di un’operazione di revival raffinato ed elegante, con cui partire da un luogo culturalmente ricco – un posto chiamato soul anni 70 – per essere accolto da un momento di cantautorato contemporaneo, al di là della decadenza dell’idea rigida di innovazione e sperimentazione.
Nell’intento di Matthew si cela il desiderio di raccontare i suoi scatoloni, in cui tutto è sorprendentemente in ordine, e con tutte queste influenze si è accorto di averne a sufficienza per riempire questo attuale futuro, per un viaggio da condurre verso un senso di sicurezza che ognuno percorre a suo modo, rimestando i propri sogni di pop music per ammettere che il sound dei padri era più buono e giusto, e che oggi si è costretti ad accomiatarsi dalle commistioni impure e dalla sensazione di non avere qualcosa di nuovo da dire costruendo la propria ibrida identità.

Front6. Brian Wilson – No Pier Pressure
Della carriera artistica di Brian Wilson non c’è bisogno di dire alcunché, dai Beach Boys agli episodi da solista, in cui il padre putativo della melodia si è imposto di pensare che sempre l’indomani sarebbe stato il gran giorno. E così si è giunti a questo nuovo album di inediti “No Pier Pressure”, che vede anche la collaborazione dei due ex compagni di band Al Jardine e David Marks.
Non puoi dire Brian senza pensare ai tappeti di voci dei ragazzi da spiaggia, agli archi, ai contrappunti di piano, al pop di grazia ma per nulla scontato, gioioso forse ma con un esito effimero con cui scaccia con decisione la faciloneria e ti impone di pensare a qualcos’altro.
Il retro-pop di Brian Wilson è in grado di presentarti qualsiasi cosa, anche tutto se stesso ci fosse ancora bisogno di presentazioni, come se non fosse passato tutto questo tempo in cui abbiamo imparato ad apprezzarlo con gli anni. Tutti direbbero come il vino, ma è una birra leggera, fatta in casa con gli stessi ingredienti di una volta.

21566013450_daea0059f2_o[1]7. Chantal Acda – The Sparkle in Our Flaws
Una visita inaspettata quella di Chantal Acda; no, a dire il vero no, lei ha già acquisito una posizione importante nella scena del cantautorato femminile, e qui siamo alle prese con un piccolo prodigio di emozioni interpretate con grazia, con il suo chamber-folk, tra arpeggi elettroacustici e tappeti di elettronica easy che si insinua come il bacio della buonanotte dopo una notte appena movimentata. Chantal non è interessata a piacerti, è una donna intraprendente quanto impotente, e in alcuni episodi, quando il discorso si fa serio e intimista, si fa una ristata e cambia argomento.
Io le sono grato perché è stata la voce femminile che mi ha accompagnato quest’anno, e che mi ha sussurrato che probabilmente sì, con la melodia e la lieve suggestione dell’elettronica puoi riuscire ad avere una conversazione con un mondo che altrimenti non riconosce in te una rinnovata energia.

1433189339_61v5kezyf3l[1]8. Northern American – Modern Phenomena
La loro domanda mi ha colto del tutto impreparato, la casualità, l’incontro, l’accidentale ritrovarsi con tutto quello che ci si potrebbe aspettare da un’esperienza che si richiama alle prime prove per essere i nuovi U2, i Radiohead prima di essere Radiohead cioè in un canto pieno e non biascicato ed epilettico, con tutto quello che questo porta con sé, dalle piccole gioie alle delusioni.
I Northern American sono un quartetto di pop rock di Los Angeles alle prese con il loro album di debutto, il delizioso “Modern Phenomena”, con le melodie costruite sulle linee di basso come una di quelle wave band prese a casaccio sul filo dei novanta, in bilico, un po’ come i meravigliosi Riverside di One, ma senza quella purezza ed eleganza.
Niente di che in verità, un esercizio di stile forse, un omaggio in gelatina, eppure è un album che, nella luce rossastra che riluceva tra i giorni duemila e passa, mi ha ricordato che il sole di quelle suggestioni adolescenziali tarda a tramontare.

david_ahlen_selah[1]9. David Ahlen – Selah
Figlio di un pastore battista, e dunque cresciuto e pasciuto in spiritualità e religione, questo artista svedese ha scritto e registrato nella comunità monastica di Stenkumla una serie di nenie di nostalgia mistica, arrangiate con un picking minimale e quella vena cantautorale indivisibile compagna di Nick Drake e Buckley padre.
Le atmosfere dimesse, le suggestioni di una bellezza languida dai colori indefinibili, come il profumo dei ceri tra quella mura di pietra, in una conversazione intima e sommessa con le proprie ombre distese tutto intorno. Il falsetto deliziosamente levigato di David fa il resto, e tutto il resto è un luogo ancora ricordato da Dio.

frot10. The Innocence Mission – Hello I Feel the Same
Se in una mano stringo un incantevole bouquet di fiori, nell’altra ho un disco di Karen e Don Peris, come per riflesso incondizionato.
Anche questo nuovo album è uno spazio nel quale reale e finzione si intrecciano, con quegli arpeggi di Don che fluttuano e quella voce vacillante di Karen, niente è liberamente rivelato, niente è potente se mai un giorno con questo aggettivo si può definire una filastrocca che ti sussurra nelle orecchie emozioni inespresse. Siamo sempre dentro quelle camerette (chamber-pop) in cui ci si approccia alla musica con delicatezza, mica vuoi svegliare animi inquieti per casa; ci si avvicina al pianoforte con la grazia fragile di chi si trova solo a passare, e sulla quale una voce struggente ricama parole sistemandole in un vaso di cristallo, tra gli echi dei Kings of Convenience, tra gli echi di ospiti destinati a sparire, tra gli echi degli Innocence Mission e niente più che neve e poi acqua.